Opinió

 

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Gennaro Ferraiuolo

22.02.2014

Il ricorso contro la Declaració de Sobirania non si sostiene

La Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de Catalunya (risoluzione del Parlament n. 5X del 23 gennaio 2013) si condensa nell’enunciazione della volontà di intraprendere «il processo per rendere effettivo l’esercizio del diritto a decidere, attraverso cui i cittadini e le cittadine della Catalunya possano determinare il loro futuro politico collettivo».


La risoluzione si inquadra nell’esercizio della funzione di controllo e impulso dell’azione politica e di governo, disciplinata dall’art. 55 del Estatut d’autonomia e dal regolamento interno del Parlament. Il Tribunal constitucional ha affermato che tali atti sono privi di effetti giuridici vincolanti. Agli stessi vanno ascritti semplici effetti rappresentativi, che si realizzano in virtù dello svolgimento di un dibattito e di una votazione, «prescindendo dal fatto che la iniziativa, se del caso, abbia un seguito» (sentenza n. 40 del 2003). E’ proprio la carenza di efficacia giuridica che priva questi atti di qualsiasi attitudine a ledere l’ordinamento normativo.


Il Governo spagnolo, forte anche di un dictamen del Consejo de Estado (n. 147 del 28 febbraio 2013), ha deciso comunque di impugnare la risoluzione. Il nodo cruciale della questione posta, che divide i giudici del TC in questi giorni chiamati a decidere, è costituito proprio dalla natura dell’atto: giuridica o esclusivamente politica?


Il Consejo de Estado, nel dictamen richiamato, ha ritenuto che «la sovranità del popolo della Catalunya risulti proclamata nella Declaració come una realtà attuale ed effettiva e non come una proposta che potrebbe acquisire effettività una volta completato il processo legalmente necessario per il suo riconoscimento». L’organo, in tal modo, cade però in una palese contraddizione: da un lato ammette l’esistenza di un percorso (legale) preordinato al riconoscimento della sovranità catalana; dall’altro, esclude aprioristicamente che la Declaració possa essere intesa, come suggerisce il suo testo, quale semplice manifestazione della volontà di intraprendere quel percorso, nel rispetto di una serie di principi tra cui anche quello della legalitat.


Argomenti ancor più singolari si ritrovano nel ricorso al TC promosso l’8 marzo 2013.


Il cuore delle argomentazioni governative è rappresentato dall’affermazione per cui la distinzione tra effetti giuridici e politici «è priva di rilevanza»: la risoluzione 5/X produrrebbe dunque, allo stesso tempo, «effetti sia politici sia giuridici».


Il Governo, partendo da questa premessa, espone alcune delle conseguenze incostituzionali della Declaració. Tra queste l’«effetto giuridico sulla cittadinanza», che discende dalla pretesa «di attivare e promuovere l’esercizio della libertà di pensiero (art. 20.1, lett. a, CE) e la partecipazione ai pubblici affari (art. 23.1 CE)». Incredibilmente, il promuovere l’esercizio di alcuni diritti costituzionali viene considerato effetto incostituzionale della dichiarazione di una aspirazione politica.


Un argomento di questo tipo, di per sé curioso, colpisce ancor di più se confrontato con una giurisprudenza del TC largamente permissiva in ordine ai limiti del dibattito parlamentare. Esemplari in tal senso gli spunti offerti proprio dalla pronuncia su cui tanto il Consejo de Estado quanto il Governo hanno cercato di far leva per sostenere le loro tesi.


Nell’auto 135 del 2004 il parlamento autonomico veniva infatti individuato come sede naturale del dibattito politico. Se e come il frutto di tale dibattito si traduca in termini giuridici «è questione che non deve condizionare anticipatamente le sorti di nessun confronto, sottraendosi diversamente al Parlamento la facoltà di condurre la discussione politica nei termini che ritiene conveniente». La discussione parlamentare è perciò «assolutamente libera nei suoi contenuti. Libera anche nei suoi esiti, se questi si formalizzano in testi senza valore normativo».


Gennaro Ferraiuolo, professore de dirito constituzionale all'Università di Napoli Federico II.


Si tratta di una lettura peraltro coerente, per espressa ammissione del TC, con un sistema in cui la Costituzione non esclude dalla possibilità di modifica nessuna delle sue previsioni. In questo contesto, la difesa giurisdizionale dell’ordinamento può invocarsi solo in presenza di infrazioni propriamente giuridiche; mai, invece, di fronte alla manifestazione di semplici «progetti o intenzioni normative che, in quanto tali, possono assumere qualunque contenuto». Non dovrebbero così sussistere problemi a considerare la risoluzione 5/X come formalizzazione, senza valore normativo, di aspirazioni politiche manifestate all’esito di un libero dibattito parlamentare. Diversamente, l’accoglimento delle tesi del ricorso sovvertirebbe questa chiara linea giurisprudenziale, ponendo vincoli intollerabili all’espressione di intenti politici che, pur se in contrasto con il diritto vigente, potrebbero sempre incanalarsi sui binari dei procedimenti contemplati dalla Costituzione per la propria modifica.


Le tesi governative possono essere superate anche rovesciando il ragionamento sin qui seguito, attraverso una sorta di argomento a contrario.


L’attivazione di un rimedio giurisdizionale dovrebbe potersi concepire se lo stesso sia in grado di modificare, in maniera percepibile, la realtà giuridica. In termini pratici, quale risultato potrà determinare una decisione del TC favorevole al Governo?


Il ricorso ha già prodotto, a far data dalla sua proposizione, la sospensione della Declaració. Cosa è cambiato, dopo la sospensione, nell’evoluzione del processo sobiranista? Le istituzioni catalane hanno modificato orientamenti e condotte? Il dibattito e le iniziative che coinvolgono l’opinione pubblica si sono di colpo congelati?


Appare evidente che nessuno di quelli che il Governo considera effetti della Declaració abbia risentito della sospensiva. Né si comprende in che modo quei medesimi effetti potrebbero risentire di una eventuale pronuncia che annulli la risoluzione.


In realtà, il ricorso al giudice delle leggi  non è in grado di offrire alcuna utilità concreta; rischia anzi di ingenerare equivoci su un atto la cui portata è stata rappresentata dal Governo in maniera distorta al solo fine di attivare un rimedio processuale fine a se stesso. Con almeno due gravi conseguenze: l’ulteriore radicalizzazione dello scontro con le istituzioni catalane e  l’esposizione eccessiva di un Tribunal constitucional già in crisi di legittimazione. 




Gennaro Ferraiuolo, professore di driritto constituzionale all'università de Napoli Federico II.

Editorial